Penso
che il perdono non può non essere, anche se apparentemente irraggiungibile,
nell’orizzonte di vita di ciascuno di noi.
Senza addentrarmi nel tortuoso cammino
delle diverse fedi religiose e delle diverse culture penso che il perdono abbia
una fondazione etica e umana che viene
prima di qualsiasi religione e di ogni “fede”: può essere considerato
un dovere etico verso se stessi, per la propria salute fisica e
mentale, prima ancora che un’opportunità (c’è anche una logica-etica
utilitaristica, ma non per questa meno difficile da seguire) per vivere e con-vivere bene.
Però ci assale subito la domanda: come può
essere possibile perdonare ferite, passate e quotidiane, che aggrediscono così
crudelmente la nostra dignità? Eppure sono ferite che dovremmo saper rimuovere
dalla memoria, liberandoci dalle
ossessioni del male ricevuto, eliminandole, annullandole. Quante volte
invece ci logorano e, tenaci e ostinate come un’edera che si arrampica sui
muri, oscurano e avvelenano le relazioni interpersonali? Quante volte ci
imprigionano in una disperata solitudine divorata dal risentimento?
Penso che l’unica soluzione possibile,
anche in una visuale puramente utilitaristica (cioè anche se non ci fosse in
noi un’etica profonda) sia di liberarci da
questa cascata ghiacciata di risentimenti che altro non fanno se non alimentare
il male subito e che continuano a oscurare le nostre giornate. Quanto volte
mi sono imposto di essere gentile e tollerante con tutti perché ciascuno ha un
proprio dramma personale alle spalle da risolvere… e poi tradire tale saggia
considerazione umana con comportamenti irascibili se non offensivi per fortuna
solo a parole… in questi momenti di rabbia riaffiorano i nostri rancori,
rispetto ai quali il prossimo attuale, anche se ci ha offeso, è del tutto
estraneo.
Sono domande che tutti dovremmo porci
perché ciò che sembra impossibile lo hanno realizzato invece uomini e donne che hanno testimoniato
indicibili e incredibili capacità di perdono e di fronte ai quali non possiamo
che pentirci e vergognarci di certi nostri risentimenti. Tra i quali
risalta, e la vorrei ricordare per questo, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, nelle parole tratte dal
suo diario scritto nel campo di concentramento olandese di Wetserbork, dal
quale non ancora trentenne veniva mandata a morire – siamo nel 1943 – ad
Auschwitz con i suoi genitori e i due fratelli. Sono parole di una donna
chiamata a parlare di perdono in condizioni di estrema sofferenza e nella
consapevolezza di essere condannata alla morte insieme alla sua famiglia. Chi
allora meglio di lei può insegnarci qualcosa sul tema?
Cito la frase che più mi ha più colpito c
e che considero la più densa di significato etico sul tema del perdono (nel
dialogo con uno scrittore amico, Klaas Smelik, con lei nel campo di
concentramento): “ … è proprio l’unica possibilità che abbiamo Klaas, non vedo
altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso
ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. (…). E convinciamoci che
ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale”.
Si fa fatica solo a pensare che tali
parole siano state scritte in un luogo di atroce umiliazione, sofferenza e
dolore, e nell’imminenza della morte…! E ancora: “La mia consapevolezza di non
essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci
sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo
misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e
nascono dentro di noi. E perciò sono molto più familiari e assai meno
terrificanti”.
Se penso a costei e ai tanti sventurati
veramente sofferenti, non posso che dire a me stesso: “Chi sono io per lamentarmi della mia vita?!”
Se questa domanda sia l’anticamera del
perdono non saprei dire, non mi sento umanamente così virtuoso.
So per certo, però, che è una domanda che in tanti dovremmo porci.
E il mondo sarebbe già migliore.
Milano, 4 febbraio
2018
Giovanni Bonomo – Candide C.C.
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