Si
riporta di seguito il testo dell’ordinanza T. Roma 16 dicembre
(pubblicata il 24
dicembre) 2020 del giudice Alessio Liberati, che segna una tappa
fondamentale nella storia del nostro Paese ora afflitto, come altri Stati nel mondo,
dalla pandemia Covid-19, perché esprime il coraggio e l’orgoglio di essere, noi
italiani, appartenenti ad una nazione sempre attenta alle garanzie di diritto per
la cittadinanza sancite dalla nostra Costituzione.
Tale ordinanza è stata ignorata dalla grande
stampa ad eccezione di Italia Oggi, da Libero e da Il Giornale. Ne riporto il
testo preceduto da una mia sintesi, precisando che il giudice ha rilevato 8
profili di incostituzionalità e 4 profili di illegittimità.
A) Profili di
incostituzionalità.
1.
Il
DPCM Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ha natura amministrativa
non legislativa-normativa: come tale non può intervenire in materie coperte da
riserva di legge come la salute (art. 32 c. 2 Cost.) né è idoneo a comprimere
gli altri diritti fondamentali previsti dagli art. 13, 14, 16, 17, 19, 34, 41
Cost.. Su questo punto già autorevoli
voci (i presidenti della Corte costituzionale Baldassarre, Marini, Cassese
oltre ad autorevoli giuristi costituzionalisti)
si erano espresse.
2.
La
deliberazione del 31. 1.2020 del Consiglio dei Ministri sullo “stato di
emergenza nazionale” che ha dato il via alla decretazione in DPCM richiama il
D. Lgs. 2. 1.2018 n. 1 “Codice della protezione civile” che prevede eventi
calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo, ma nulla
delle fattispecie di cui all’art. 7 comma 1 lett. c) è riconducibile al “rischio
sanitario”.
3.
Nessuna
fonte costituzionale o avente forza di legge, quindi, attribuisce il potere al
Consiglio dei Ministri di dichiarare lo stato di emergenza per rischio
sanitario: la sola ipotesi di fattispecie attributiva al Governo di poteri
normativi peculiari è quella prevista dagli art. 78 e 87 relativa alla
dichiarazione dello stato di guerra.
4.
La
previsione di norme generali e astratte, peraltro limitative di fondamentali
diritti costituzionali, mediante DPCM è contraria alla Costituzione: la funzione
legislativa è disciplinata dall’articolo 76 Cost., il quale, nel prevedere
“l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se
non con determinazione di principi e criteri direttivi” impedisce, anche alla
legge di conversione di decreti legge, la possibilità di delegare la funzione
di emanare norme generali astratte ad altri organi diversi dal Governo nella
sua composizione collegiale, e quindi con divieto per il solo Presidente del
Consiglio dei Ministri di emanare legittimamente norme equiparate a quelle
emanate in atti aventi forza di legge.
5.
Il
primo D.L. 23. 8.2020 n. 6 che ha “legittimato” i DPCM tramite delega in bianco
alla normazione secondaria per misure di limitazione di diritti e libertà
fondamentali, espressa con le parole “Le
autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e
gestione dell’emergenza al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da
COVID-19 anche fuori dei casi di cui all’articolo 1 comma 1” è in contrasto
con l’art. 77 Cost. sulla decretazione d’urgenza tramite D.L. da parte del Governo,
norma costituzionale per la quale nelle materie coperte da riserva di legge è
possibile demandare alle fonti secondarie unicamente disposizioni di dettaglio
necessarie all’esecuzione della legge stessa. Sussiste perciò un contrasto
anche con la legge 23. 8.1988 n. 400 sulla “Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri” il cui art. 15 prescrive che “I
decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto
deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”, mentre la
legislazione di emergenza attribuisce un potere decisamente al di fuori di tale
perimetro costituzionale.
6.
Anche
i DPCM che disciplinano la c.d. “fase 2” si palesano di dubbia
costituzionalità e contrastanti con gli articoli che vanno dal 13 al 22 della
Costituzione e con la disciplina dell’art. 77 Cost., perché hanno imposto una
rinnovazione della limitazione dei diritti di libertà che avrebbe invece
richiesto un ulteriore passaggio in Parlamento diverso rispetto a quello che si
è avuto per la conversione del decreto “Io resto a casa” e del “Cura Italia”.
7.
I
DPCM sono atti che si sottraggono alla responsabilità collegiale del Consiglio
dei Ministri, diversamente dai decreti legge, dal controllo Parlamentare e
dalla firma del Capo dello Stato (che emana i decreti leggi ai sensi dell’art.
87 Cost.), concentrando le competenze nella persona del Presidente del
Consiglio dei Ministri. Anche se la procedura seguita negli ultimi DPCM prevede
il coinvolgimento a vario titolo di molte altre autorità, ad iniziare dal
Ministro della Salute, non può comunque dirsi che tale iter offra le stesse garanzie della piena collegialità tipica dei
decreti legge.
8.
Perplessità
sorgono con riferimento alla aprioristica prevalenza riconosciuta al diritto
alla salute (art. 32 Cost.) rispetto a tutte le altre libertà e diritti
fondamentali: nessuna norma della Costituzione pone in subordinazione
gerarchica tali diritti e ciò avrebbe quindi richiesto un’operazione di
“bilanciamento” operata nel rispetto dei confini costituzionali e comunque
esplicitata in maniera chiara e ben comprensibile.
B) Profili di
illegittimità
Premessa.
L’azione
del potere esecutivo esercitata dal Governo in modo da sottrarsi al preventivo
controllo parlamentare (i DPCM sono sottratti al controllo del Presidente della
repubblica in sede di promulgazione e pure al sindacato ex post della corte
costituzionale) ha reso finora impossibile il successivo sindacato da parte del
potere giudiziario, che avrebbe potuto già rimuovere le concrete limitazioni
dei diritti costituzionali compromessi. Alla base di ogni DPCM viene sempre
citato il CTS Comitato Tecnico Scientifico le cui analisi sono state riservate
per diverso tempo e poi rese pubbliche solo a ridosso delle scadenze di DPCM
stessi: in tal modo si è impedita l’attivazione della tutela giurisdizionale.
1.
Tutti
i provvedimenti amministrativi devono essere motivati ai senti dell’art. 3
legge 7. 8.1990 n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi” e a tale obbligo non sono sottratti i
DPCM. Ma nel corpo dei provvedimenti sulla emergenza epidemiologica, la
motivazione è redatta in massima parte con la peculiare tecnica della
motivazione “per relationem”, cioè con rinvio ad altri atti amministrativi e,
in particolare ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS). Tale tecnica
motivatoria è in astratto ammessa e riconosciuta dalla giurisprudenza ma
richiede che gli atti cui si faccia riferimento siano resi disponibili o
comunque siano conoscibili. A contrario i verbali del CTS risultavano in un
primo tempo “riservati” e successivamente resi disponibili sul sito della
Protezione Civile con un ritardo tale da rendere impossibile, per la scadenza
del termine di impugnazione, l’attivazione della tutela giurisdizionale.
2.
I
DPCM si palesano illegittimi, oltre che per tale dinamica di carenza di
motivazione resa inconoscibile, anche per eccesso di potere derivante dal
mancato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco (il diritto fondamentale
alla salute della collettività e gli altri diritti costituzionali del pari
inviolabili), che avrebbe dovuto farsi in base ad un’istruttoria e ad una
chiara, univoca e documentata situazione fattuale. Tale vizio di potere si
rileva anche all’interno della stessa decretazione per contraddittorietà con
altri atti della medesima amministrazione destinati a incidere sulla stessa
situazione descritta, non essendo possibile comprendere le ragioni dei
mutamenti di indirizzo.
3.
Non
si comprende quale sia la logica della scelta fortemente compressiva operata
dalla PA e ciò sia nella parte in cui si configura come discrezionalità
amministrativa che nelle parti in cui si ravvisa discrezionalità tecnica. Partendo
dal dato di fatto “che l'Organizzazione
mondiale della sanità ha dichiarato il 30 gennaio 2020 l'epidemia da COVID-19
un'emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” - cui è
seguita la successiva dichiarazione dell'Organizzazione mondiale della sanità
dell'11 marzo 2020 con la quale l'epidemia da COVID-19 è stata valutata come
«pandemia» in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a
livello globale - , il DPCM 9.3.2020 ha adottato limitazioni ben più incisive
rispetto a moltissimi altri Paesi coinvolti dalla pandemia, con ciò rendendo
evidente la possibilità che la stessa amministrazione (la Presidenza del
Consiglio dei Ministri che ha emesso l’atto) aveva in astratto di adottare
misure diverse e meno compressive dei diritti fondamentali,
4.
Le
disposizioni limitanti le libertà fondamentali in alcuni casi non appaiono
adottate in immediata conseguenza logica di un ragionamento chiaro e basato su
dati ontologici fattuali certi o almeno verificabili, ma previa esposizione di
mere clausole di stile, come “dopo aver
accuratamente valutato gli scenari epidemiologici derivanti da una riapertura
della attività didattica frontale nelle scuole” (in base a cui il CTS
mantiene ad esempio l’obbligo di formazione a distanza - verbale del CTS n. 49
del 9 aprile 2020), o con prescrizioni del tutto generiche come la “garanzia di pulizia ed igiene ambientale con
frequenza di almeno due volte al giorno” (senza indicarne le modalità -
verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020), o con limitazioni motivate
genericamente e senza alcuna spiegazione del perché (come l’accesso di al
massimo una persona per locali fino a 40 mq senza che fosse stata inizialmente
fatta una distinzione delle caratteristiche fisiche dell’immobile, della
cubatura, dell’areazione, e comunque del perché la misura fosse ben diversa da
quanto consentito sui mezzi di trasporto pubblici - verbale del CTS n. 49 del 9
aprile 2020). Anche di tali scelte e di numerose altre non appare comprensibile
la motivazione e, in alcuni tratti, la logica sottesa.
°°°
Estratto dell’ordinanza pubblicata il 24
dicembre 2020 a odierna in sede cautelare, del Trib. di Roma, 6° sez. civile,
giudice Alessio Liberati.
“ La
limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è
verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta non alla intrinseca
diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione “esterna” dei
provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul
presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o
addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell’Uomo, così come
riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni
Internazionali.
è notorio che le
suddette libertà e diritti fondamentali siano stati incisi con modalità ed
intensità diverse nei vari Paesi del globo terrestre ed alcuni Stati, come la
Svezia, addirittura, si siano limitati a indicazioni e suggerimenti, senza
imporre limiti al godimento dei diritti, quantomeno nel periodo iniziale...
Appare
necessario verificare se in concreto la limitazione imposta con atti
provvedimentali ed atti aventi forza di legge fosse legittima.
Punto
indiscusso è che le libertà fondamentali degli individui siano state
compresse attraverso un DPCM. Tale atto, come noto, non è di natura normativa,
ma ha natura amministrativa. Tale natura resta anche laddove un provvedimento
avente forza di legge, preventivamente, lo “legittimi”, e sempre che tale
legittimazione “delegata” sia attribuita nei limiti consentiti.
In
questa prospettiva non vi è dubbio che l’azione della amministrazione che
operi attraverso atti amministrativi sia (apprezzabilmente) responsabilizzante,
in quanto esposta, diversamente dall’operare attraverso atti aventi forza di
legge, anche alle ulteriori censure tipiche dei provvedimenti amministrativi, e
non solo al sindacato politico.
Un
primo aspetto da verificare è la idoneità del DPCM a comprimere i diritti
fondamentali che ha, di fatto, investito e compresso. Ci si deve innanzitutto
domandare quale sia la norma
fondamentale legittimante la legislazione di emergenza.
A
tale interrogativo è stato risposto che, nonostante non sia regolata a livello
costituzionale, l’emergenza pandemica è prevista dal nostro ordinamento e
precisamente nelle disposizioni di cui al d.lgs. 1/2018. Invero, il codice
della protezione civile, fonte normativa primaria, ha consentito al Governo il
31 gennaio 2020 di emanare la delibera recante la “Dichiarazione dello stato di
emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di
patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, a seguito della quale sono
stati adottati numerosi provvedimenti, al fine di arginare le conseguenze della
diffusione del virus COVID-19. Primo tra tutti il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6,
(sostituito dal d.l. 25 marzo 2020 n. 9) anch’esso fonte normativa primaria in
quanto atto avente forza di legge. Verrebbe naturale concludere che le regole
introdotte nell’ordinamento in forza del decreto legge non siano in contrasto
con la Carta costituzionale che, all’art. 77, prevede espressamente l’utilizzo
di tale fonte di produzione “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”.
Diverse
ed autorevoli però sono state le opinioni di coloro (per tutti i Presidenti
Emeriti della Corte Costituzionale Baldassare, Marini, Cassese) che hanno
rilevato la incostituzionalità del DPCM a tale finalità utilizzato.
Deve
subito precisarsi che le disposizioni in questione hanno investito libertà
espressamente garantite dalla Costituzione, quali la libertà di circolazione
(art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.), la libertà religiosa
(art. 19 Cost.), il diritto/dovere all’istruzione (art. 34 Cost.) la libertà
di iniziativa economica (art. 41 Cost.), l’inviolabilità del domicilio (art.
14 Cost.) sino a limitazioni addirittura alla libertà personale di movimento
(art. 13 Cost.), la cui compressione è consentita solo “con provvedimento
motivato della autorità giudiziaria” (in casi eccezionali di necessità ed
urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza
può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle
successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni
effetto) e “solo nei casi e modi previsti dalla legge”, posto che “la libertà
personale è inviolabile”.
Provvedimenti
inisistenti su tali libertà fondamentali dovrebbero quindi avere necessariamente
carattere di legge o di atto avente forza di legge.
Come
già evidenziato da altra giurisprudenza (giudice di Pace di Frosinone) non
può ritenersi che un DPCM possa porre limitazioni a libertà
costituzionalmente garantite, non avendo valore e forza di legge.
Va
rammentato infatti che con deliberazione del 31.1.2020 il Consiglio dei
Ministri della Repubblica Italiana, pubblicata in G.U. Serie generale n. 26 del
1.2.2020, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale in conseguenza del
rischio sanitario derivante da agenti virali trasmissibili: “ai sensi e per gli
effetti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c) e dell’articolo 24, comma 1,
del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, è dichiarato per sei mesi dalla
data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del
rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti
virali trasmissibili; 2) per l’attuazione degli interventi di cui all’articolo
25, comma 2, lettre a) e b) ...”.
Però,
con le parole della succitata giurisprudenza “Se si esamina la fattispecie
richiamata dalla deliberazione sopra citata si potrà notare che non si
rinviene alcun riferimento a situazioni di “rischio sanitario” da, addirittura,
“agenti virali”.”
Infatti,
l’articolo 7, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 1/18 stabilisce che “gli
eventi emergenziali di protezione civile si distinguono: ... c) emergenze di
rilievo nazionale connessi con eventi calamitosi di origine naturale o
derivanti dall’attività dell’uomo”.
Sono
le calamità naturali, cioè terremoti; valanghe; alluvioni, incendi ed altri;
oppure derivanti dall’attività dell’uomo, cioè sversamenti, attività umane
inquinanti ed altri. Ma nulla delle fattispecie di cui all’articolo 7, comma 1,
lettera c), del D.Lgs. n. 1/18 è riconducibile al “rischio sanitario”.
A
ciò è doveroso aggiungere, sempre con le parole del giudice sopra menzionato.
che “i nostri Padri Costituenti hanno previsto nella Costituzione della
Repubblica una sola ipotesi di fattispecie attributiva al Governo di poteri
normativi peculiari ed è quella prevista e regolata dall’articolo 78 e
dall’articolo 87 relativa alla dichiarazione dello stato di guerra. Non vi è
nella Costituzione italiana alcun riferimento ad ipotesi di dichiarazione dello
stato di emergenza per rischio sanitario e come visto neppure nel D.Lgs. n.
1/18. In conseguenza, la dichiarazione adottata dal Consiglio dei Ministri il
31.1.2020 è illegittima, perché emanata in assenza dei presupposti
legislativi, in quanto nessuna fonte costituzionale o avente forza di legge
ordinaria attribuisce il potere al Consiglio dei Ministri di dichiarare lo
stato di emergenza per rischio sanitario. Pertanto, poiché gli atti
amministrativi, compresi quelli di Alta Amministrazione, come lo stato di emergenza
sono soggetti al principio di legalità, la delibera del C.d.M. del 31.1.2020
è illegittima perché emessa in assenza dei relativi poteri da parte del
C.d.M. in violazione degli 95 e 78 che non prevedono il potere del C.d.M. della
Repubblica Italiana didichiarare lo stato di emergenza sanitaria.”
Da
ciò consegue la illegittimità di tutti gli atti amministrativi conseguenti.
Inoltre,
deve ritenersi condivisibile autorevole dottrina costituzionale (S. Cassese)
secondo cui la previsione di norme generali e astratte, peraltro limitative di
fondamentali diritti costituzionali, mediante Decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri sia contraria alla Costituzione.
Con
le parole del giudice di Pace di Frosinone: In particolare, non appare meritevole
di accoglimento la tesi di chi invoca la legittimità di tali previsioni in
virtù del rinvio a tali atti amministrativi, i DPCM, da parte di
decreti-legge, che avendo natura di atti aventi forza di legge equiparerebbero
alla fonte legislativa i DPCM evitandone in tal guisa la loro nullità e la
conseguente disapplicazione da parte del Giudice Ordinario.
Ed
in effetti, il DPCM emanato il 26.4.2020, deriverebbe la sua efficacia dal
Decreto- legge n. 19, del 25.3.2020, così come gli atti amministrativi della
Regione Lazio.
In
ogni caso, la funzione legislativa delegata è disciplinata dall’articolo 76
Cost., il quale, nel prevedere “l’esercizio della funzione legislativa non può
essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi
” impedisce, anche alla legge di conversione di decreti legge la possibilità
di delegare la funzione di porre norme generali astratte ad altri organi
diversi dal Governo, inteso nella sua composizione collegiale, e quindi con
divieto per il solo Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare
legittimamente norme equiparate a quelle emanate in atti aventi forza di legge.
In conclusione, solo un decreto legislativo, emanato in stretta osservanza di
una legge delega, può contenere norme aventi forza di legge, ma giammai un
atto amministrativo, come le Ordinanze sindacali o regionali od il DPCM,
ancorché emanati sulla base di una delega concessa da un decreto-legge
tempestivamente convertito in legge. Da ciò discende la illegittimità delle
disposizioni del DPCM del 26.4.2020, in G.U del 27.4.2020, n. 108”
Da
ciò discende la illegittimità dei DPCM che hanno imposto la compressione dei
diritti fondamentali che oggi viene addotta quale causa eziologica
dell’alterato equilibrio del sinallagma contrattuale.
Quanto
sopra è ancor più evidente se si considera che il primo decreto legge che ha
“legittimato” il DPCM non fissava neanche un termine e non tipizzava i poteri,
perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione
di atti innominati, oltre a non stabilire le modalità di esercizio dei poteri.
In
contrasto al provvedimento d’urgenza ex art. 77 cost. è cioè stata attribuita
una delega in bianco alla normazione secondaria, legittimata così ad adottare
misure di limitazione di diritti e libertà fondamentali: il Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri ha in buona parte disciplinato la materia
in luogo del decreto legge.
Come
sottolineato da dottrina poco conosciuta, muovendo dall’assunto che nelle
materie coperte da riserva di legge è possibile demandare, solo se relativa,
alle fonti secondarie unicamente disposizioni di dettaglio necessarie
all’esecuzione della legge stessa, appare dunque censurabile, sotto il profilo
della legittimità, il d.l. 6/2020 che dispone all’art. 2: “Le autorità
competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione
dell’emergenza al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19
anche fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma 1”.
Sussiste
perciò un contrasto con la legge 23 agosto 1988, n. 400 recante “Disciplina
dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri”.
La
disposizione di cui all’art. 15 della citata legge prescrive espressamente che:
“I decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro
contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”, mentre
la legislazione di emergenza attribuisce un potere decisamente al di fuori di
tale perimetro costituzionale.
Anche
i DPCM che disciplinano la cd. “fase 2” sono perciò, ad avviso di questo
giudicante, di dubbia costituzionalità, anche poiché hanno imposto una
rinnovazione della limitazione dei diritti di libertà che avrebbe invece
richiesto un ulteriore passaggio in Parlamento diverso rispetto a quello che si
è avuto per la conversione del decreto “Io resto a casa” e del “Cura Italia”
(cfr. Marini). Si tratta pertanto diprovvedimenti contrastanti con gli articoli
che vanno dal 13 al 22 della Costituzione e con la disciplina dell’art. 77
Cost., come rilevato da autorevole dottrina costituzionale.
Inoltre,
si aggiunge, anche se si ritenesse legittima la limitazione delle libertà
individuali sarebbe necessaria la specificazione di un termine all’interno
dello stesso decreto del Presidente del Consiglio.
Sul
punto, però, anche la temporaneità del DPCM appare in realtà solo formale,
come evidenziato di recente dalla giurisprudenza del TAR del Lazio “tenuto
conto che le misure finora assunte per fronteggiare l’epidemia da covid 19, di
cui la difesa erariale enfatizza la temporaneità, nei fatti risultano avere
sostanzialmente perso tale connotazione stante la rinnovazione di gran parte
delle stesse con cadenza quindicinale o mensile” (TAR del Lazio ordinanza n.
7468/2020, che si è espresso sul successivo DPCM 3.11.2020).
Va
infine rilevato che i DPCM sono atti che si sottraggono alla responsabilità
collegiale del Consiglio dei Ministri (diversamente dai decreti legge), dal
controllo Parlamentare e dalla firma del Capo dello Stato (che emana i decreti
leggi ai sensi dell’art. 87 Cost.), concentrando le competenze nella persona
del Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche se la procedura seguita negli
ultimi DPCM prevede il coinvolgimento a vario titolo di molte altre autorità,
ad iniziare dal Ministro della Salute, non può comunque dirsi che tale iter
offra le stesse garanzie della piena collegialità tipica dei decreti legge.
Perplessità
sorgono da ultimo sia con riferimento alle modalità di confronto con le
Regioni (stante l’incrocio di competenze) che con la aprioristica prevalenza
riconosciuta al diritto alla salute (art. 32 Cost.) rispetto a tutte le altre
libertà e diritti fondamentali: nessuna norma della Costituzione pone in
subordinazione gerarchica tali diritti e ciò avrebbe quindi richiesto una
operazione di “bilanciamento” operata nel rispetto dei confini costituzionali e
comunque esplicitata in maniera chiara e ben comprensibile.
Pur
nella consapevolezza della assoluta unicità della situazione, non spetta a
questo giudicante alcuna valutazione in merito alla opportunità (o addirittura
alla inevitabilità) politica della scelta sia dello strumento che del suo
contenuto, ma resta invece doveroso verificare la legittimità dell’azione ai
fini della pronuncia sulla sussistenza dei presupposti per accogliere la
domanda oggetto di giudizio.
Questo
giudicante ritiene quindi che vi sia un contrasto dei DPCM aventi ad oggetto la
materia con le disposizioni costituzionali.
Da
ciò discende l’importante corollario che l’istante si duole di situazione non
invincibile ex se, ma delle conseguenze derivanti da un impianto normativo-
provvedimentale che è in contrasto con la Carta Costituzionale, e quindi
certamente caducabile (con conseguente eliminazione degli effetti negativi
posti a base della pretesa stessa).
Un
secondo aspetto da verificare è la legittimità dei provvedimenti
amministrativi (i DPCM) in questione.
In
merito, ad avviso di questo tribunale, anche a voler aderire alla tesi opposta
– trattasi infatti di argomento dibattuto sia in dottrina che in sede
parlamentare – e cioè alla tesi della piena costituzionalità delle
limitazioni imposte con DPCM, non potrebbe egualmente pervenirsi a valutazione
favorevole in merito alla legittimità dei DPCM che hanno imposto vincoli ai
diritti fondamentali in base al presupposto della emergenza epidemiologica da
diffusione pandemica di agente virale denominato SARS Cov 2.
In
tale prospettiva alternativa, invero, è fuor di dubbio che l’azione del potere
esecutivo (il Governo) esercitata scegliendo di sottrarsi al preventivo
controllo parlamentare (e cioè attraverso la diversa tecnica di interventi per
atti amministrativi, quali sono i DPCM, che non hanno richiesto un “avallo”
parlamentare sui singoli diritti e libertà fondamentali compressi e sulle
relative modalità e tempistiche di limitazione), sia controbilanciata –
essendo tale dinamica uno dei fondamentali corollari del principio di divisione
dei poteri proprio dei sistemi democratici moderni (basati sulla tricotomia
potere esecutivo/potere legislativo/potere giudiziario) – dal successivo
sindacato di tipo diffuso da parte del Giudice, espressione del potere
giudiziario.
Va
sottolineato anche che i DPCM sono sottratti al controllo del Presidente della
Repubblica, in sede di promulgazione, nonché al sindacato ex post della Corte
costituzionale.
Sul
punto ritiene questo giudicante che le concrete limitazioni derivate dalla
esecuzione di un provvedimento amministrativo, quale è il DPCM, avrebbero
potuto essere facilmente rimosse, trattandosi di provvedimenti amministrativi
che ad avviso di questo tribunale appaiono ex se illegittimi.
Può
rilevarsi infatti un ricorrente difetto di motivazione, che proprio nell’ottica
del sindacato giurisdizionale di controllo sull’azione amministrativa da parte
del giudice, rappresenta l’elemento di primaria ed imprescindibile importanza.
Come
noto, tutti provvedimenti amministrativi devono essere motivati ai sensi
dell’art. 3 legge 241/1990. A tale obbligo non sono sottratti neanche i DPCM.
Tale
elemento dell’atto amministrativo è indispensabile per comprendere aspetti
quali il corretto accertamento del dato ontologico-fattuale (come ad esempio
nella fattispecie: il numero e le modalità di calcolo dei decessi e degli
infetti presi a base delle limitazioni; il piano sanitario pandemico posto a
base delle compressioni delle libertà, consentendo così di verificare il suo
aggiornamento e quindi la sua eventuale perfettibilità); la correttezza del
ragionamento logico (come la consequenzialità della scelta concreta rispetto
all’obiettivo prefisso, ad esempio nella decisione o meno di chiudere parchi e
ville pubbliche o di vietare la salutare attività motoria o le riunioni di
culto); la consequenzialità tra premessa e conclusione; o la proporzionalità
(diversi ad esempio sono, nella materia che ci riguarda, i limiti astrattamente
imponibili dall’autorità “sanitaria” per contenere situazioni di rischio
virale diversificate: si pensi ai banali virus influenzali, al ben più grave
virus da SARS Cov 2 o al devastante virus Ebola, rispetto ai quali ictu oculi
l’azione di contenimento non può che essere proporzionale al diverso rischio).
La
motivazione consente quindi di operare, sulla base di tali informazioni e
riscontri, il fondamentale sindacato giurisdizionale da parte dell’autorità
giudiziaria (in via diretta da parte del giudice amministrativo o
disapplicativa da parte del giudice ordinario), che è un principio cardine
degli assetti democratici moderni, i quali nel rispetto del principio di
divisione dei poteri, impongono comunque la possibilità di un controllo da
parte del potere giudiziario.
Orbene,
nel corpo dei provvedimenti relativi alla emergenza epidemiologica, la
motivazione è redatta in massima parte con la peculiare tecnica della
motivazione “per relationem”, cioè con rinvio ad altri atti amministrativi e,
in particolare (ma non solo), ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico
(CTS).
Tale
tecnica motivatoria è in astratto ammessa e riconosciuta dalla giurisprudenza,
ma richiede (eccettuato il caso di attività strettamente vincolata) che gli
atti cui si faccia riferimento siano resi disponibili o comunque siano
conoscibili.
È
fatto notorio (essendo anche stato oggetto di dibattito politico messo in
risalto dai mass media), che alcuni di tali atti vengano resi pubblici (o
comunque in altro modo ostesi) con difficoltà, talvolta solo in parte, e
comunque con una tempistica molto lunga, in alcuni casi addirittura prossima
alla scadenza di efficacia del DPCM stesso.
In
un primo periodo, addirittura, i verbali del CTS risultavano classificati come
“riservati” ed è noto in proposito il dibattito contenzioso che ha portato
alla loro pubblica ostensione.
Successivamente
tali verbali del CTS sono stati periodicamente pubblicati sul sito della
Protezione Civile, ma con un ritardo tale da non consentire l’attivazione di
una tutela giurisdizionale, in quanto troppo prossimi alla scadenza della
efficacia.
Ad
esempio, alla data del 12.12.2020 - in vigenza del DPCM 3.12.2020 che si basa
sul verbale del CTS del 3.12.2020 n. 133 - risultano pubblicati solo i verbali
delle sedute fino al 24.10.2020.
Tale
omissione potrebbe essere astrattamente superata con il ricorso alla procedura
di accesso agli atti, prevista e disciplinata dalle leggi in materia, che in
caso di accoglimento obbligherebbe alla ostensione dell’atto de relato.
Tuttavia nel caso di specie anche il ricorso alla procedura impugnatoria
dell’accesso non sarebbe di fatto utilmente esperibile, essendo prescritto un
preventivo silenzio di 30 giorni da parte della amministrazione rispetto alla
domanda di accesso, prima di poter presentare ricorso, ed essendo comunque
necessaria la fissazione della udienza e la notifica del ricorso.
Nelle
more, dunque, è pressochè automatico il decorso della efficacia del
provvedimento stesso, con conseguente improcedibilità dell’azione giudiziaria
esperita. Non può poi sottacersi che, almeno con riferimento ai primi
provvedimenti, la disposizione di chiusura (c.d. lockdown) si è accompagnata
alla generalizzata chiusura anche degli uffici giudiziari, eccetto i casi
urgenti, che ha reso di fatto estremamente difficoltoso il ricorso alle vie di
giustizia.
In
tale dinamica l’obbligo di motivazione non è, ad avviso di questo giudicante,
sufficientemente adempiuto ed i provvedimenti che si sono susseguiti sono
dunque illegittimi per violazione di legge (art. 3 legge 241/1990).
La
motivazione, inoltre, è elemento indispensabile per consentire anche il
sindacato su possibili vizi di c.d. eccesso di potere. Sul punto talvolta non
è emerso neanche, dal combinato disposto dei DPCM e verbali del CTS, un
adeguato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, che fosse cioè
basato su una istruttoria completa e su una chiara ed univoca presa d’atto
della situazione di fatto.
In
materia si è già espresso il TAR del Lazio (con riferimento al DPCM del
novembre 2020), di cui si riportano le parole: “infine, dal DPCM impugnato non
emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato
un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della
collettività e tutti gli altri diritti inviolabili” (TAR del Lazio ordinanza
n. 7468/2020).
Con
riferimento al DPCM 9.3.2020, ad esempio, vi è un generico riferimento al
precedente DPCM 8.3.2020, nel quale sono citati i verbali del CTS del 3
febbraio 2020, n. 630 e nelle sedute del 7 marzo 2020. Il verbale del 7.3.2020
proponeva in particolare di adottare due distinte zone, una relativa all’intero
territorio nazionale, l’altra relativa ai territori in cui si era maggiormente
osservata la diffusione del virus.
La
giustificazione di tale dicotomica classificazione, così come le relative
limitazioni ai diritti fondamentali, ad avviso di questo giudicante non sono
però fornite di motivazione adeguata nel corpo del verbale del CTS (cui fa
indirettamente rinvio il DPCM 9.3.2020 nel richiamare il precedente DPCM
8.3.2020), cioè di motivazione tale da far comprendere i termini
dell’accertamento istruttorio ed il ragionamento logico della scelta
dell’amministrazione, limitandosi il CTS ad enunciare assunti tautologici come
“quanto più le misure di contenimento sono stringenti tanto più ci si attende
una maggiore efficacia nella prevenzione della diffusione del virus”.
In
concreto andrebbe invece chiaramente spiegato al fine di consentire un pieno
sindacato giurisdizionale l’iter logico-motivatorio sotteso alla scelta: tra i
tanti esempi di dettaglio possibili, perché la apertura dei bar e dei
ristoranti possa avvenire nel rispetto della distanza di almeno un metro (e
quella degli altri esercizi commerciali garantendo genericamente l’evitamento
di assembramenti, con ciò ritenendole misure idonee a contenere la
diffusione), mentre invece le scuole di ogni ordine e grado debbano restare
chiuse per garantire il medesimo risultato. Inoltre andrebbe chiarito il
perchè di una classificazione uniforme per la quasi totalità del territorio
nazionale (a fronte di dati statistici diversissimi, come ad esempio gli
scarsissimi casi presenti in Umbria e Calabria nel periodo di riferimento) al
fine di verificare se il provvedimento risponda ai criteri minimi di rispetto
della legittimità sotto il profilo sia motivatorio (violazione di legge) che
di eccesso di potere per difetto di istruttoria ed illogicità.
Tale
iter motivatorio, del tutto generico, è quindi ad avviso di questo giudice
insufficiente a rispettare i parametri richiesti per ogni provvedimento
amministrativo ai sensi dell’art. 3 legge 241/1990, con conseguente
illegittimità del provvedimento stesso, nel suo complesso: è indubbio infatti
che il complessivo risultato del DPCM sulla limitazione delle libertà e dei
diritti fondamentali sia il frutto del combinato disposto e del coordinato
risultato delle varie e singole disposizioni.
A
dimostrazione di ciò si consideri che alcune delle gravi compressioni dei
diritti costituzionalmente e internazionalmente garantiti, peraltro, sono
contraddittorie con le disposizioni degli stessi DPCM adottati successivamente
sulla materia, nei quali molte prescrizioni sono state sostanzialmente
modificate. Anche tali modifiche avrebbero dovuto essere spiegate e rese
comprensibili con adeguata motivazione, con ciò consentendo al giudice di
operare il sindacato tipico dei provvedimenti amministrativi, cioè sui vizi
c.d. di eccesso di potere (che insieme alla incompetenza ed alla violazione di
legge costituiscono i vizi di legittimità che il giudice deve verificare).
Tale mancanza palesa dunque un possibile ulteriore vizio di eccesso di potere
dei DPCM, per contraddittorietà con altri atti della medesima amministrazione
destinati ad incidere sulla stessa situazione, non essendo possibile
comprendere a pieno le ragioni del mutamento di indirizzo.
Si
è già detto, del resto, che partendo dal dato di fatto “che l'Organizzazione
mondiale della sanita' il 30 gennaio 2020 ha dichiarato l'epidemia da COVID-19
un'emergenza di sanita' pubblica di rilevanza internazionale” (cui è seguita
la successiva dichiarazione dell'Organizzazione mondiale della sanità dell'11
marzo 2020 con la quale l'epidemia da COVID-19 è stata valutata come «pandemia»
in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello
globale), il DPCM 9.3.2020 ha adottato limitazioni ben più incisive rispetto a
moltissimi altri Paesi coinvolti dalla pandemia, con ciò rendendo evidente la
possibilità che la stessa amministrazione (la Presidenza del Consiglio dei
Ministri che ha emesso l’atto) aveva in astratto di adottare misure diverse e
meno compressive dei diritti fondamentali.
Dalla
lettura dei verbali delle sedute del CTS che si sono succedute, per quanto
detto sopra, non emerge quindi con chiarezza quale sia la logica della scelta
fortemente compressiva operata dalla PA e, sia nella parte in cui si configura
come discrezionalità amministrativa che nelle parti in cui si ravvisa
discrezionalità tecnica, l’opzione della amministrazione non appare
univocamente determinata dalla situazione di fatto sottostante e, talvolta,
appare addirittura contraddittoria, con ciò determinando ulteriori possibili
vizi di eccesso di potere per illogicità (sul punto, ad esempio, ha già preso
posizione il TAR del Lazio con la citata ordinanza n. 7468/2020 con riferimento
al DPCM 3.11.2020, nella parte in cui dispone l’obbligo di tenere le mascherine
nelle aule scolastiche, ordinando accertamenti istruttori).
Ciò
detto, va rilevato che le considerazioni sopra esposte possono essere
agevolmente estese ai vari e numerosi DPCM che si sono succeduti.
Si
rammenta infatti che il Dpcm 9.3.2020 ha cessato di produrre effetti dalla data
di efficacia delle disposizioni contenute nel Dpcm 10 aprile 2020. Tale DPCM
del 10.4.2020 richiama il verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020. A partire
dal 4 maggio 2020 le disposizioni del Dpcm 10 aprile 2020 sono state invece
sostituite da quelle del Dpcm 26 aprile 2020, che ha richiamato i verbali n. 57
del 22 aprile 2020 e n. 59 del 24-25 aprile 2020, e così via, sino ai più
recenti DPCM cui corrispondono i relativi verbali delle sedute aggiornate del
CTS, oltre che i rispettivi decreti legge “legittimanti” (sul punto si è già
detto).
Anche
il combinato disposto di tali atti, tuttavia, consente di ritenere che in tali
casi i DPCM siano viziati da violazione di legge per difetto di motivazione,
possibile sintomo di altri vizi quali l’eccesso di potere per difetto di
istruttoria e contraddittorietà. Sulla motivazione per relationem del resto si
è già ampiamente detto.
Ma
vi è di più.
Le
disposizioni limitanti le libertà fondamentali in alcuni casi non appaiono
adottate in immediata conseguenza logica di un ragionamento chiaro e basato su
dati ontologici fattuali certi (o almeno verificabili), ma previa esposizione
di mere clausole di stile, come “dopo aver accuratamente valutato gli scenari
epidemiologici derivanti da una riapertura della attività didattica frontale
nelle scuole” (in base a cui il CTS mantiene ad esempio l’obbligo di formazione
a distanza - verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020), o con prescrizioni del
tutto generiche come la “garanzia di pulizia ed igiene ambientale con frequenza
di almeno due volte al giorno” (senza indicarne le modalità - verbale del CTS
n. 49 del 9 aprile 2020), o con limitazioni motivate genericamente e senza
alcuna spiegazione del perché (come l’accesso di al massimo una persona per
locali fino a 40 mq senza che fosse stata inizialmente fatta una distinzione
delle caratteristiche fisiche dell’immobile, della cubatura, dell’areazione, e
comunque del perché la misura fosse ben diversa da quanto consentito sui mezzi
di trasporto pubblici - verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020).
Anche
di tali scelte (e di numerose altre) non appare quindi comprensibile la
motivazione e, in alcuni tratti, la logica sottesa.
La
tecnica motivatoria del verbale CTS 22.4.2020 n. 57 (ed alcuni successivi)
appare invece leggermente diversa. Dalla lettura dei prospetti di cui a pag. 13
e 14 del verbale, si desume che siano state effettuate valutazioni di carattere
diverso, con studio di possibili scenari in base ai quali garantire il rispetto
del tasso di occupazione delle terapie intensive entro soglie di sicurezza idonee
a garantire una occupazione massima (stabilite in 9.000 posti).
In
base a tali diversi scenari, di cui però anche qui non è ad avviso di questo
giudice chiaramente comprensibile l’origine e l’elaborazione (con ciò
integrandosi un possibile vizio di difetto di istruttoria), non è comunque
esplicitato perché venga prediletta l’una opzione rispetto all’altra (ad
esempio chiusura delle scuola, ma contestuale apertura di alcune tipologie di
imprese; ammissione di un numero massimo di partecipanti alle celebrazioni
funebri, ma adozione di parametri diversi per l’assembramento nei mezzi di
trasporto) e non risultano dal provvedimento le valutazioni di variabili
essenziali (come ad esempio la entità della ipotetica variazione dei codici
ATECO – laddove possibile in ragione del concreto oggetto di impresa - delle
attività produttive vietate, al fine di rientrare in quelle consentite, con
conseguente scostamento del dato predittivo).
Anche
in questo caso l’assenza di parametri precisi e delle analitiche motivazioni
della scelta tecnica rendono illegittimo il DPCM, in quanto basato su atti (ed
in particolare i verbali del CTS) non idonei a tal fine. ”
- fine della trascrizione -